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Ascesa e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo

E’ il più giovane allenatore ad aver vinto il campionato italiano, ma era ebreo, e dovette far fronte alle vergognose leggi razziali fasciste

Il calcio italiano splende di una nobile stella, il suo nome è Árpád Weisz, ma quasi nessuno lo conosce.

Per ora ci basti sapere che è ungherese, che è ebreo. Nasce a Solt nel 1896, e in gioventù unisce l’attività di calciatore ad un impiego in banca. Nella stagione 25/26 è ingaggiato dall'Inter, ma quasi subito un brutto infortunio pone termine alla sua carriera a neanche trent'anni.

Diviene allenatore, e con l'Ambrosiana vince lo scudetto del 28/29, scoprendo il talento di Peppino Meazza. Passa al Bologna nel 1935, e la fa diventare la squadra che "tremare il mondo fa": Sesto posto all'esordio, e poi due titoli consecutivi (1936 e 1937), con il cameo del Torneo dell'Esposizione di Parigi.

Porta il modulo di gioco WM (chiamato anche “Sistema”) in Italia: la M identifica i cinque difensori, la W i cinque attaccanti. Weisz vuole fare un calcio ragionato e rapido, quindi il Sistema gli permette di accorciare la squadra: con il quadrilatero di centrocampo, avanzano i due mediani e arretrano le due mezzali, così il peso del gioco viene redistribuito in modo equo.

Si vedono i primi terzini che attaccano.

Già all'Ambrosiana innova il training settimanale: studi tattici, lavagna in allenamento, diete calibrate. A differenza di doppio petto e cravatta, conduce gli allenamenti insieme ai suoi giocatori, porta i calzoncini. Dal punto di vista del temperamento, a Weisz non piace vedere la propria squadra arretrare il baricentro, e vuole che i suoi giocatori tengano sempre il pallino del gioco.

A Bologna però tutto era cominciato in sordina. «E poi, caro Weisz - gli raccomanda il presidente Dall'Ara -, lei ogni lunedì mi manda un rapportino su come han giocato i ragazzi».

Se il diktat di allora era semplicemente “palla lunga e pedalare”, dai “rapportini” di questo ungherese emerge l'analisi di chiavi tattiche, segnalazioni di errori di posizione, e tutto in anticipo di sessant’anni su Mourinho e Arrigo Sacchi.

Weisz è un allenatore acclamato, la sua famiglia vive a Bologna; i suoi due figli sono stati battezzati con rito cattolico. «È il momento più bello della sua vita - scrive Matteo Marani - e dista appena nove mesi dalla fuga dall’Italia, meno di quattro anni dall’inferno di Auschwitz, meno di sei dalla fine di tutto».

Nel 1938 il duce promulga le leggi razziali votate all'unanimità dalla Camera dei Deputati, e Weisz diviene di colpo solo un ebreo. Si era sposato con Ilona Rechnitzer, da cui ebbe due figli: Roberto e Clara, nati entrambi a Milano, quindi italiani.

Il Bologna gli dà il benservito. ‘Il Resto del Carlino’ liquida la notizia con un quadratino piccolissimo nelle pagine interne. Riesce a raggiungere con la famiglia l'Olanda, allena il Dordrecht, finché il 29 settembre del 1941 dal Commissariato di Polizia arriva una comunicazione che ricorda - in forza delle disposizioni vigenti dal 15 settembre 1941 sul "pubblico comportamento degli ebrei" - che ad Árpád Weisz è proibito trovarsi su un terreno dove sono organizzate partite accessibili al pubblico. Poi la famiglia di Weisz scompare.

Il treno piombato parte venerdì 2 ottobre 1942. Elena, Roberto e Clara vengono avviati alla camera a gas il 5 ottobre, appena scesi dal treno, come risulta dal Kalendarium di Auschwitz. Clara aveva compiuto otto anni da tre giorni, Roberto aveva dodici anni. Di Árpád non c'è più traccia.

La sua morte è datata dopo, 31 gennaio 1944. In Italia nessuno del mondo del calcio sa niente degli ebrei ungheresi cacciati a pedate (tra cui Ernő Erbstein e Jenö Konrad), ma gli olandesi non sono da meno: sul sito ufficiale del Dordrecht, alla sezione ‘storia’, non vi è alcun riferimento al biennio 39/41, periodo in cui la squadra grazie a Weisz raggiunse i migliori risultati della sua storia.

Cos’è che può spiegare tanto oblio? Scrive Giovanni A. Cerutti: «Hanno agito meccanismi di rimozione che possono essere ricondotti al modo in cui il mondo dello sport pensa se stesso, come completamente avulso dalle vicende della storia e della politica. Con il paradosso di espungere anche dalla storia strettamente calcistica figure di valore assoluto, senza le quali è persino difficile comprendere l'evoluzione della disciplina».

Davvero inspiegabile. Stefano Olivari commenta: «Come se Conte o Allegri fossero, per ipotesi, deportati in un campo di concentramento e a guerra finita nessun giornalista dedicasse a loro una riga per quaranta anni. Cattiva coscienza, per dirla in due parole, con messa in discussione della retorica tipo ‘italiani brava gente’. Per questo ricordare non è mai banale. Per dirla con Hannah Arendt, ad essere banale è il male».

Matteo Marani lo ripesca dal colposo oblio con un bel libro biografico: "Dallo scudetto ad Auschwitz". Non se lo ricordava nemmeno Enzo Biagi, bolognese e tifoso del Bologna: «Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finito». È finito ammazzato.

Vincenzo Carboni