Arte

Architecture in Italy

Biennale di architettura, il Padiglione Italia in cerca di cure

Ho 38,7 di febbre, sono quattro giorni che non ho idea di che clima ci sia al di là della finestra e tutto ciò che incamero sono pasticche e notizie effervescenti. Tra le tante, una si fa sentire come il bollore dei legumi a cucinare dietro le mie spalle: l’ingombrante e solita incertezza riguardo alle cure da elargire all’arte italiana. In questo caso, cure non è una perifrasi, si tratta proprio di stabilire chi curerà il Padiglione italiano alla prossima Mostra Internazionale d’Architettura della Biennale di Venezia. Ad oggi, il nome più quotato sembrava essere quello di Francesco Dal Co. Un nome che certamente non suona nuovo ai timpani degli esperti in volumi e squadre. Al diavolo infatti chi auspicava novità e strillava il nome di Stefano Boeri come scelta quasi certa, anche in virtù della vicinanza a Rem Koolhaas, lodato boss della rassegna.

Nulla è ancora definito tuttavia, fatto che sposta l’attenzione sulla gestione del Padiglione, prima ancora che sul soggetto incaricato a curarlo. Anche questa volta (per la Biennale d’Arte si scelse la formula del concorso su inviti), il Ministero della Cultura guidato da Massimo Bray, non manca di attirare su di sé critiche e malumori circa il ritardo inaudito e le dubbie modalità di scelta del vagheggiato curatore.

Per chi non lo conoscesse, Francesco Dal Co è già stato direttore dell’edizione del 1988 della Biennale veneta e della V Mostra Internazionale di Architettura nel 1991. Ferrarese, laureato allo Iuav di Venezia dove insegna dal 1981. Dal 1982 è insegnate anche a Yale, direttore di Casabella dal 1996 e curatore della collana sull’architettura della casa editrice Electa.

A dispetto del curriculum appropriato, Dal Co ha preferito giocare d’astuzia, viste le difficoltà enormi che ricadrebbero su di lui nella gestione del Padiglione a soli sette mesi dall’apertura, pensando così di rifiutare l’offerta “si è vero sono stato contattato ma ho rifiutato: non ho né il tempo né l’interesse a dirigere il Padiglione Italiano” ha decretato lapidario in una conversazione telefonica per il periodico Edilizia e Territorio.

Così di nuovo punto e a capo, il Mibac non rilascia dichiarazioni e si suppone a questo punto una nomina diretta, sempre che qualcuno accetti il difficile compito. Una situazione di stallo imbarazzante per l’immagine dell’architettura italiana.

Già, perché pur volendo far rimbalzare le colpe da una parte all’altra, in una filippica di scusanti proprie del mondo istituzionale, il nocciolo della questione è che l’architettura made in Italy non è certo il gagliardetto con cui attirare supposti curatori per sollevarne l’immagine nel mondo.

Qui si tratta di un Paese intero che ha ceduto l’interesse verso la cura estetica in cambio di generosità politiche. Il quadro odierno ci restituisce un Paese smembrato tra centro e periferia, tra iper-stilizzazioni e paesaggi atroci, accomunate dal pretesto di sospendere l’idea di bellezza a favore dell’opaca linearità sterile e grigia.

È il fallimento del modernismo, della concretizzazione e della sperimentazione allo stato solido.

Dagli anni ’70 fino a oggi, la speculazione edilizia ha fatto in modo da non lasciar spazio a ciò che James Hillman, junghiano fine e attento, considerava i fattori rimossi più significativi della contemporaneità: la bellezza e la politica.

Non è certo una bellezza classica che si dovrebbe rincorre oggi, né passatista in qualche modo, certamente però un certo equilibrio formale tra luogo e idea. Lo spazio costruito dall’uomo costituisce una specie di medium fra l’uomo e l’ambiente, in armonia quindi con il luogo e forte di rimandi significativi in cui l’uomo storico possa identificarsi e riconoscersi.

Tutto questo manca all’accademismo con cui le opere vengono concepite, giocoforza all’assenza di progettualità urbanistica e all’endemica costruzione di case e centri commerciali, come se l’urbe si fosse esaurita in queste due sottocategorie edilizie.

A maggior ragione poi, dappertutto le richieste di appropriazione della casa, laddove burocrazia e interesse economico ne impediscono la concessione, si fanno sentire a gran voce come urgenza intrascurabile.

Se si è convinti che l’architettura non abbia le sue colpe in tutto questo, è sufficiente pensare ai numerosi progetti avanguardistici iniziati un po’ ovunque, lenti e difficoltosi in ragione di una progettualità da studio e non sul territorio.

A ogni movimento di gru deve per forza corrispondere un gigantesco movimento di linee e materiali che ne giustifichi la messa in moto. Così le grandi opere sono le grandi operazioni di moltiplicazione e addizione di zeri, le piccole e medie opere sono sottrazioni e divisioni di lembi di terra, lasciati allo scempio dell’abusivismo e agli appalti neppure ormai così truccati.

Alla fine, c’è chi lo chiama dono e chi condono. Ma sempre cemento rimane.

Laura Migliano