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Da zitella a single: una rivoluzione solo etimologica

L’uso del termine “zitella” in senso dispregiativo è stato abbandonato, ma restano i retaggi di una cultura che vuole la donna appagata unicamente se legata all’amore di un uomo

E’ l’incubo ricorrente di ogni donna sentimentalmente libera che abbia passato il quarto di secolo; un pensiero inconfessabile, al punto di desiderare che sia impensabile: il timore di essere considerata una zitella. E cioè una “nerd”, una persona fisicamente talmente poco attraente o caratterialmente sgradevole, o entrambe le cose, da non riuscire a trovare uno straccio di fidanzato né - orrore! - un uomo col quale intrattenere una frequentazione occasionale e concedersi qualche momento di piacevole distrazione.

Nulla sulle menti femminili - fatte salve le sempre presenti eccezioni - hanno potuto il '68, il femminismo, l’emancipazione, le pari opportunità: l’ansia di vivere da eterna nubile, di non potere indossare l’abito bianco, di non riuscire a mettere al mondo un bambino prima che, impietosa, arrivi la menopausa, di essere guardata con pietà e sospettata di avere “qualcosa che non va”, attanaglia ancora oggi moltissime donne, anche giovani, molte delle quali restie ad ammetterlo (anche a loro stesse).

Se dal punto di vista linguistico un'evoluzione, nel corso del tempo, si è innegabilmente prodotta, essendo l'uso del termine “zitella” in senso dispregiativo stato abbandonato (sopravvive nel parlare comune laddove viene utilizzato con valenza scherzosa) in favore del più internazionale, moderno, foneticamente maggiormente gradevole e, soprattutto, unisex “single”, lo stesso non può dirsi per quanto riguarda il punto di vista culturale.

Una donna single viene generalmente dipinta come una professionista affermata, economicamente indipendente, con una vita piena d'impegni e d’interessi (quando invece, magari, è solo una delle tante precarie che coltivano molti meno interessi di quelli che nutrono perché tempo e denaro scarseggiano) ma monca in quanto scevra dell'amore di uomo; quasi, a nulla, infatti, rilevano la sua professione, il suo status sociale, le sue idee sui rapporti uomo-donna, l'amore che dà agli amici e ai familiari: tutto ciò non la esimerà dal sentirsi domandare il perché della sua solitudine affettiva e della sua rassegnata accettazione della maternità negata, né dal sentirsi rimproverare per non essersi impegnata abbastanza nella ricerca di un partner.

Né la dispenserà dall'ipocrisia di facciata di chi guarderà a lei come a una merce difettosa destinata a sognare per sempre un principe azzurro che mai arriverà, costringendola a vivere da spettatrice passiva delle gioie delle vite degli altri.

Single di nome e zitella di fatto, insomma. A pensarla così non è solamente quella parte dell'universo maschile che non si è accorta o che non è stata capace di accettare l'emancipazione femminile, bensì una ancora troppo consistente percentuale di donne che non sono mai state sfiorate dal dubbio che la realizzazione di un essere di sesso femminile non debba necessariamente passare attraverso il matrimonio e la procreazione o che non hanno voluto sottrarsi alla pressione di una società che le vuole lavoratrici efficienti, mogli devote e madri premurose.

Ciò che, purtroppo, non è cambiato, e questo è il problema di fondo, è la circostanza che il valore di una donna continui ad essere messo in relazione alla sua capacità di essere una buona compagna e una brava madre, ruoli senza rivestire i quali la donna condurrebbe un'esistenza incompleta e infelice.

Peccato che, luoghi comuni a parte, una donna, esattamente come un uomo, possa essere inappagata e infelice anche se quando è moglie o madre e, allo stesso modo, possa essere felice anche da sola.

Sono solo parole”: il lemma single, esattamente come quello zitella, non è altro che un contenitore vuoto. Le persone sono sempre e solo persone, qualunque sia il loro stato status sentimentale, il quale, va da sé, non dice nulla della loro interiorità. Men che mai della loro esistenza.

Dalila Giglio