INTERVISTE Musica

Cristina Donà: grazia, eleganza, leggiadria e grande energia (l’intervista)

“Al di là di Ramazzotti e Pausini, l’italiano ha ancora delle possibilità, ma ai giovani dico: imparate a scrivere in inglese”

Grazia, eleganza, leggiadria e grande energia sono le cifre stilistiche di una delle regine del cantautorato pop-rock italiano, Cristina Donà. In questa piacevole chiacchierata l’artista lombarda racconta la sua visione della musica, con la libertà e l’intelligenza che da sempre la contraddistingue.

- È giusto che un musicista canti anche del sociale, oggi?

Penso che dipenda dall’indole che il musicista ha, dall’avere o meno l’attitudine ad affrontare certi temi. Io personalmente parlo molto di sociale ma lo faccio col mio linguaggio, che non è certo quello dei Modena City Ramblers o di Caparezza, per dire. Non intendo affermare che un musicista abbia una maggiore possibilità, ma una maggiore sensibilità nel sentire talune tematiche, sì. Poi naturalmente è un discorso molto soggettivo, non tutti gli artisti ne sentono il bisogno, ma trovo che sia estremamente giusto mandare certi tipi di messaggi. Non mi piacciono gli slogan o i messaggi pre-confezionati, è questione di gusti. Penso a quando è stato dato del fascista a uno come Battisti: spesso le sue canzoni contenevano messaggi molto profondi - penso a un pezzo come “Ma è un canto brasilero” - che però, non essendo così immediati come appunto sono gli slogan, altrettanto spesso venivano fraintesi. Di sicuro certe frasi ad effetto, da piazza, funzionano meglio, ma poi cosa lasciano alla fine?

- Sei considerata un’artista indipendente: cos’è per te la libertà, artisticamente parlando?

Io ho lavorato sia con etichette indipendenti sia con una major e devo dire che sono stata fortunata, perché con entrambe ho goduto della medesima libertà. Nel mio caso quindi vuol dire essere libera di esprimermi musicalmente come voglio, di avere totale autonomia e indipendenza per ciò che concerne le mie scelte artistiche. Libertà è poter realizzare quello che un musicista ha in testa, cosa sempre più difficile, ovvero la sua idea di musica e di arte. Questa è la vera indipendenza.

- Hai sempre scritto dischi in italiano, eccezion fatta per un tuo album omonimo del 2004, prodotto da Davey Ray Moor. Dopo questa virata linguistica sei ritornata, per l’appunto, all’italiano. Come mai?

Quella è stata una bellissima esperienza, in quanto con l’aiuto di mio marito, che è un professionista del settore, abbiamo fatto la traduzione letterale di molti brani del disco precedente, Dove sei tu. Io sono molto affezionata all’italiano, soprattutto perché riesco ad esprimere bene ciò che voglio comunicare solo in questa lingua. Nonostante conosca ovviamente l’inglese, non sono dentro questa lingua fino al punto di ottenere la stessa intenzione che ottengo con l’italiano. C’è da dire poi che l’Italia non è ancora così pronta a dischi in lingua straniera, così come invece è naturale per molti altri paesi, penso a quelli del nord. Pensa che ho fatto di recente un concerto in Norvegia e mi hanno pregato di cantare in italiano e non in inglese, perché è proprio l’italiano che volevano ascoltare! Quindi, al di là di Ramazzotti e Pausini, l’italiano ha ancora delle possibilità, ma ai giovani musicisti consiglio comunque di fare un’esperienza all’estero e di imparare a scrivere anche in inglese per ampliare le proprie possibilità.

- In Italia non c’è uno spazio televisivo come si deve dedicato alla musica. Quanto è grave?

Questo è davvero un dramma italiano, perché la televisione pubblica ad esempio avrebbe il dovere di riservare spazio alla musica italiana o perlomeno alla storia della musica italiana, che è sempre un insegnamento e quindi rientrerebbe nel compito della tv pubblica, ossia quello di educare. Molti dicono che il problema siano i talent, io penso che il problema non sono tanto i talent quanto il fatto che ci siano solo quelli e che non rappresentano pertanto un’alternativa a nulla. Un altro problema è il fatto che le radio passino musica straniera per la quasi totalità delle loro programmazioni. C’è proprio una gestione sbagliata di quello che è il messaggio musicale in Italia. Quindi dico viva i festival e viva i locali che ospitano in continuazione band di emergenti e non, nonostante siano vessati da mille noie burocratiche.

- Crowdfunding sì o crowdfunding no?

È di sicuro un’alternativa valida, forse il futuro dell’imprenditoria musicale, che magari va un po’ aggiustata e regolamentata come tante altre, come ad esempio lo streaming: in questo caso il fruitore pensa che l’artista riceva ciò che deve ricevere tramite la pubblicità quando in realtà non è affatto così. Ciononostante non mi sento di condannare questa nuova forma di finanziamento alla musica, la vedo come una strada possibile.

- Qui a Roma il concerto che hai tenuto questa estate insieme ai Marta Sui Tubi è stato un successo. Com’è nata l’idea?

In realtà sono anni che ci rincorriamo! L’ultima volta mi avevano invitata per un’incursione nel loro tour poco prima che partecipassero a Sanremo ma io fui impossibilitata ad andare in quell’occasione. Quindi abbiamo colto al volo la possibilità di quella data insieme a Roma per divertirci un po’ a fare le nostre cose assieme. Ho un ricordo molto bello di quel concerto a Villa Ada e soprattutto siamo molto contenti che quelli che ci seguono abbiano apprezzato e si siano divertiti.

- Due artisti impossibili ai quali avresti volentieri proposto un duetto?

Mi vengono in mente decine di nomi stranieri ma voglio rimanere in Italia, quindi ti dico: Battisti e De André.

Francesca Amodio