Un libro diventa un classico quando condensa in una vicenda individuale una grande esperienza collettiva; quando narra una storia concretamente e irriducibilmente personale che esprime quella di tutti.
Era giovanissima quando cominciò a scrivere, sin dai tempi della scuola, le immagini che la colpivano diventavano subito prosa e più raramente poesia. Si divertiva a dipingere quadri con l'alfabeto, un irresistibile desiderio di lasciare tracce la pervadeva. Non era una mania di protagonismo, non era nemmeno quella sicumera che talvolta è caratteristica degli scrittori. Sempre pronta a mettere su carta emozioni e sensazioni, appariva come una nuova Virginia Wolff intenta a descrivere il mondo, evocarlo, trasformarlo. Perché forse il mondo lo si può cambiare veramente soltanto ripensandolo attraverso gli strumenti dell'arte.
Elsa Morante è stata una scrittrice di razza, una grande della nostra letteratura. Nata a Roma nel 1912 cominciò a scrivere da bambina, come ho già detto, dapprima frequentò il ginnasio e poi il liceo.
A diciotto anni lascia la famiglia e va a vivere per conto proprio. I talenti innati la porteranno, nel giro di qualche anno, a una discreta indipendenza. Nel 1941 sposò uno scrittore molto noto, Alberto Moravia, con il quale visse anni felici. La storia è il romanzo più conosciuto e più controverso della sua produzione.
Nel presente saggio mi occuperò principalmente di questo. Nei primi anni settanta la Morante era già nota al pubblico, consacrata come grande scrittrice, La storia arrivò dopo molti anni di assenza. È un romanzo scritto a margine della Seconda guerra mondiale, gli scenari sono quelli di una Roma bombardata dagli alleati. I fatti storici sono al di fuori della vicenda narrata, per questo non lo si può considerare un romanzo storico sulla falsariga dei Promessi Sposi.
La cronaca di guerra, gli armistizi, gli incontri fra i potenti, il Nazismo e il Fascismo sono presenti in corpo minore, alla fine di ogni capitolo. La vera grandezza del romanzo risiede nel tentativo riuscito di raccontare la guerra attraverso gli occhi dolenti e confusi dei poveri. Il tema è quello del male assoluto che si identifica in tutte le guerre. Il titolo estremamente ambizioso, quasi supponente, si riferisce alla storia del mondo, alla storia dell'umanità, a ciò che noi chiamiamo la storia, quella raccontata da Erodoto, le storie raccontate da Machiavelli, quella raccontata dagli storici e quella vissuta dall'umanità.
Quindi non una storia, non un romanzo immaginario, ma ciò che è avvenuto nel mondo.
Elsa Morante pensa che la storia sia stata essenzialmente un eccidio di innocenti, di creature innocenti e che abbia colpito soprattutto coloro che non sanno la storia, ma la subiscono. Ed è così ancora oggi. È la storia odierna che, a distanza di quarant'anni - da quando il romanzo è stato scritto -, colpisce gli innocenti, le persone che non sanno la guerra, che non sanno la storia. Il pensiero della Morante ha un illustre predecessore in Hegel: "…Ma pure quando consideriamo la storia come un simile mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui, il pensiero giunge di necessità anche a chiedersi in vantaggio di chi, e di quale finalità ultima, siano stati compiuti così enormi sacrifici". Lezioni sulla filosofia della storia.
Pubblicato nel 1974 i protagonisti entrarono subito nella mente dei lettori. Ida, vedova di Alfio Mancuso, Nino (Ninnuzzu) figlio di Ida, Gunther il soldato tedesco e poi Giuseppe (Useppe). Il vero protagonista dolcissimo, innocente, un bambinetto come tanti ma nato da una violenza.
Lo stupro subito da Ida da parte del giovane tedesco è l'evento da cui si dipartono le vicende del romanzo. Ida è una donna semplice, una giovane vedova di trentasette anni invecchiata precocemente, una maestra elementare ligia al dovere, la quale, tra le rovine dei quartieri bombardati, cerca di guadagnarsi la giornata e sfamare i suoi figli. Appare come una combattente tra le sfortune della sua vita, la vedovanza, la guerra, lo stupro, e poi Useppe. Questo figlio la cui fine tragica la farà impazzire.
Tutto congiura contro Ida Ramundo, il magro stipendio da insegnante non è sufficiente, il cibo razionato, Nino non termina gli studi, Useppe si ammala gravemente (Il grande male, così viene definita l'epilessia nel romanzo). Solo una soluzione appare all'orizzonte, capace di mettere fine alle quotidiane sofferenze della famiglia Mancuso. Questa agonia irrimediabile può terminare solo con la sparizione dei protagonisti. La guarigione è possibile solo e soltanto con la morte di tutti i personaggi. Nino muore da partigiano in un incidente, Ida muore in un ospedale psichiatrico, e il piccolo grande Useppe muore bambino, così tenero, innocente e indifeso a seguito di una convulsione violentissima. Un bambino la cui colpa è stata quella di nascere in un mondo sbagliato, violento, in un mondo in guerra.
Useppe, il "pischelletto" dagli occhi azzurri, resterà bambino per sempre e in esso si continueranno ad identificare i piccoli sofferenti di tutte le epoche.
Nonostante le tematiche del libro non scorgo né pessimismo, né disperazione nelle pagine del romanzo. Lo scenario è quello, sì, di una storia tragica, ma il modo in cui è raccontato è su di tono, al punto da lasciare un filo di speranza. Lo vedo come una rivolta, una ribellione e le ribellioni non sono mai disperate, bensì coraggiose. Vi è la speranza che quando tutto sembra finire nel dolore, nel sangue, nelle lacrime, c'è sempre un filo d'acqua, un rivolo d'acqua, un torrentello che gorgoglia da qualche parte.
Giuseppe Cetorelli