Comics INTERVISTE

Napoletanità, impegno sociale: Fran De Martino, molto più di un fumetto “al femminile”

La napoletanità è una condizione della mente: essere napoletani e “napoletanizzare” la realtà non è semplice campanilismo, è filosofia. O, almeno, lo era quando avevamo i Di Giacomo, i De Filippo e i Troisi, cioè prima che lo spessore culturale della città si assottigliasse al punto da ridursi al lungomare liberato

Nata a Napoli il giorno dell’arrivo di Maradona, nel 2006 comincia a pubblicare fumetti online e a collezionare svariate collaborazioni come vignettista, illustratrice, grafica e web designer. Dal 2012 è il Bob Mankoff di Fanpage. Si occupa di satira, cattiverie ed altri disegnini, cura il webcomic giornaliero “f4” e ogni tanto scrive di fumetti. A marzo 2014 ha pubblicato per round midnight edizioni “La sai a Mammeta?”, un libro illustrato scostumatissimo.

Per noi Fran si è prestata a rispondere a qualche domanda, sempre con l’ironia e l’intelligenza che la contraddistingue, e ci ha spinti a scoprire qualcosa in più su di lei.

- Come hai iniziato a disegnare e cosa o chi ti ha spinto a farlo?

“Chi li spinge a farlo? C’è qualcuno dietro che li spinge?
Spingitori di fumettisti, su Rieduchescional Channel!”

In realtà, molto banalmente, sono una di quelli che ha cominciato a disegnare da piccola e non ha più smesso. A volte il fatto che i fumetti sono il mio lavoro, che riesco a camparci e a pagarci le bollette mi lascia ancora carica di meraviglia. Sono stata fortunata, o forse solo molto testarda.

- Tra tutti i tuoi lavori i miei preferiti sono le tue rivisitazioni dei capolavori di Studio Ghibli ambientate a Napoli e dintorni. Come ti è venuto in mente questo connubio così insolito e spassoso?

La napoletanità è una condizione della mente: essere napoletani e “napoletanizzare” la realtà non è semplice campanilismo, è filosofia. O, almeno, lo era quando avevamo i Di Giacomo, i De Filippo e i Troisi, cioè prima che lo spessore culturale della città si assottigliasse al punto da ridursi al lungomare liberato, l’invenzione del bidet e il tifo da stadio. Parlando nello specifico, mi divertiva l’idea di stravolgere la delicatezza e la poesia dell’universo Ghibli per portare i suoi personaggi ad un livello prosaico, terreno e decisamente “verace”.
L’esperimento ha avuto un riscontro molto positivo, e da fan di Miyazaki sicuramente lo ripeterò ancora.

- A parte il tuo lato goliardico e spiccatamente partenopeo, spesso le tue vignette richiamano in modo intelligente a temi seri e di interesse sociale. Una vignetta riesce a scuotere gli animi?

Spero proprio di sì, altrimenti significa che sto facendo male il mio lavoro.
La chiave di lettura del fumetto, e in questo caso del fumetto satirico, riesce come poche altre a scardinare il meccanismo dell’assorbimento passivo della notizia e a metterne a nudo contraddizioni e complessità: basta pensare a quello che si è scatenato contro la vignetta di Charlie Hebdo sul terremoto di Amatrice.
Il problema vero è che sempre più spesso il lettore non riesce a distinguere la satira dalla notizia, il commento dall’informazione, il significante dal significato; la cosa più semplice è prendersela con l’irriverenza della satira, accusata di essere cattiva, inefficace o di dubbio gusto, e si torna in continuazione al vecchio proverbio dello stolto che guarda il dito e non vede la luna.

- Dalla tua bio si evince che dal 2012 sei il Bob Mankoff di Fanpage, come ti senti in questo ruolo?

Sono quattro anni che me lo chiedo! In quanto fumettista all’interno di un gruppo di giornalisti la mia posizione è sempre un po’ da outsider: passo le giornate a cercare di conciliare dati di fatto e creatività, di inventarmi qualcosa di autoriale ma sempre stando sul pezzo, di migliorare nella comunicazione, di migliorare nel disegno, di differenziare il lavoro editoriale su un tema affrontandolo con una vignetta particolarmente incisiva o soffermandomi con una storia composta da più tavole. Tutto questo tenendo sempre presente che ormai le notizie invecchiano, e i trend cambiano, ad una velocità spaventosa. E’ una sfida continua, ma molto stimolante. Ecco, mi piacerebbe essere ricordata per quest’affermazione quando morirò pazza.

- Com’è essere una delle poche donne che in Italia lavorano e hanno successo nel mondo dei comics? Come ti vedono i colleghi? Pari opportunità?

Grazie per l’attestato di stima. Di come mi vedano i colleghi non ne ho idea, questo dovresti chiederlo a loro; sulle colleghe, invece, mi dilungo volentieri: ne seguo molte, giovani, brillanti e bravissime e fortunatamente tutte al di fuori dello stereotipo per cui le fumettiste donne disegnerebbero esclusivamente fumetti “al femminile”, laddove ovviamente la categoria del “femminile” include tutto ciò che di più banale, melenso, domestico e stucchevole la mente umana è in grado di concepire.
Sono pregiudizi duri a morire, ma quando vedo i lavori di autrici come Giulia Sagramola, Lorenza Natarella o Claudia Razzoli, giusto per menzionarne qualcuna, penso che per fortuna ne stiamo (lentamente) uscendo.

- Qual è il tuo rapporto con la musica? La ascolti mentre crei o solo nei momenti in cui ti rilassi?

Sempre, specialmente in redazione. Può trattarsi di un artista, un album o anche un solo brano ripetuto per 10 ore, ma ho fisicamente bisogno delle cuffiette e del tappeto musicale. Hai presente Rainman? Ecco. Così, ma con Photoshop.

- Se fossi un personaggio di un libro chi saresti e perché?

Non sono mai stata brava ad immedesimarmi con i personaggi letterari e nutro da sempre una profonda avversione verso gli eroi e le eroine, quindi direi chiunque tranne Jo March, Anna Karenina e Madame Bovary.

Francesca Romana Piccioni