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Traduttori e interpreti nella storia: tra successi, rischi ed errori

Traduttori (di testi scritti) e interpreti (di comunicazioni verbali) esistono sin dall’antichità. I Greci e i Romani, che governavano immensi imperi, li sceglievano tra gli schiavi catturati per poter comunicare con le popolazioni sottomesse

Traduttori e interpreti restano spesso sconosciuti al grande pubblico e non trovano posto nei libri di storia. D’altro canto, l’invisibilità è parte integrante del mestiere: finché il messaggio giunge nell’altra lingua senza distorsioni e interferenze, non c’è motivo per notarli. Nel corso della storia queste figure hanno svolto un ruolo cruciale, soprattutto in momenti di tensione politica internazionale. Eppure in pochi sono finiti sotto i riflettori, e la maggior parte più per i fallimenti che per i successi. Al giorno d'oggi tutti si aspettano che siano soppiantati dai sistemi di traduzione automatica, ma è ancora presto per questo: quello del traduttore è un mestiere complesso, dove ogni sfumatura conta.

Traduttori (di testi scritti) e interpreti (di comunicazioni verbali) esistono sin dall’antichità. I Greci e i Romani, che governavano immensi imperi, li sceglievano tra gli schiavi catturati per poter comunicare con le popolazioni sottomesse. Al tempo, quindi, non si trattava di professionisti come ai giorni nostri, ma più semplicemente di persone che comprendevano entrambe le lingue. Nel corso delle epoche, man mano che le rotte commerciali e le forze colonizzatrici raggiungevano regioni più lontane, le conoscenze linguistiche divennero sempre più vitali: per motivi economici, appunto, oppure per esplorare nuovi territori, diffondere la religione, comprendere la cultura altrui, nonché negoziare la pace dopo gli inevitabili conflitti.

I traduttori e gli interpreti più ricordati sono proprio quelli che, con i propri servizi, hanno influenzato il corso della guerra e della pace. Molti storici, ad esempio, ritengono che il lavoro dei traduttori e decrittatori di Bletchley Park abbia ridotto la durata della Seconda guerra mondiale di almeno due anni e salvato così migliaia di vite.
D’altra parte, poco tempo dopo, un errore di traduzione potrebbe aver contribuito al lancio della bomba atomica su Hiroshima. Nel luglio del 1945, infatti, gli Alleati sottoposero al primo ministro giapponese Kantara Suzuki la Dichiarazione di Potsdam, nella quale stabilivano i termini della resa giapponese, sotto minaccia di una “immediata e completa distruzione” del Paese in caso di mancata accettazione. Tutti in Europa attendevano frementi la risposta dal Giappone. Quando i giornalisti chiesero a Suzuki il suo parere sul documento, questi rispose con l'espressione “mokusatsu”, tradotta dai media occidentali con “non vale la pena di essere commentato”. Questo, tuttavia, era solo uno dei due possibili significati del termine, che in questo caso sarebbe stato da intendersi come un più neutro “no comment”. Sentendosi provocati, pochi giorni dopo gli Stati Uniti decisero di mettere in atto il primo bombardamento atomico della storia, con le rovinose conseguenze che tutti conosciamo.

Controverso è anche un episodio risalente all’epoca della Guerra Fredda. In un momento già caratterizzato da gravi tensioni politiche, nel novembre del 1956 Nikita Khrushchev pronunciò un discorso davanti a numerosi ambasciatori occidentali, concludendolo con la frase “My vas pochoronim”. Quest’ultima fu tradotta dall’interprete personale del presidente sovietico con “Vi seppelliremo” e fu quindi vista come una minaccia di guerra atomica. Per tutta risposta i rappresentanti occidentali lasciarono la stanza. In realtà, una traduzione più accurata dell’espressione russa sarebbe stata “vi sopravviveremo”, nel senso che il comunismo sarebbe sopravvissuto al crollo del capitalismo. Questo a dimostrazione che le sfumature contano.

È chiaro, insomma, che il ruolo dell’interprete, o del traduttore, non è per nulla facile, soprattutto in tempi di guerra. Recente è la vicenda di Mohammad (il cognome non è noto per motivi di sicurezza), un afgano che ha servito a lungo come interprete per l’esercito statunitense nella lotta contro i talebani. Qui il suo compito era tradurre comunicazioni che permettevano di sventare attacchi imminenti ed esplosioni di ordigni. Dunque un lavoro sul campo, con tutti i rischi del caso, per sé e addirittura per la propria famiglia, dato che per vendetta i talebani hanno ucciso suo padre e rapito il fratellino di soli tre anni. Ma la beffa, oltre agli irreparabili danni subiti, è che la complessa burocrazia statunitense ha poi reso lungo (circa tre anni e mezzo) e difficile il processo per l’ottenimento di un permesso di soggiorno che gli permettesse di rifugiarsi negli Stati Uniti. In casi come questi verrebbe da pensare che l'utilizzo di un sistema di traduzione automatica, semmai ne esisterà uno all'altezza del compito, eviterebbe di mettere a rischio delle vite umane.

Ma anche in altri casi, pur se meno tragici, questi professionisti sarebbero forse lieti di essere soppiantati da un computer. Che dire, ad esempio, dell’interprete del Colonnello Gheddafi? Nel 2009, all’Assemblea Generale dell’ONU, fu sul punto di collassare dopo aver tradotto un discorso fiume del leader libico durato ben 90 minuti. Al 75° minuto gettò la spugna e, esausto, scaricò l’incombenza sui colleghi delle Nazioni Unite.

Diana Burgio