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I Grandi Processi

La giustizia è per Platone la virtù propria dell’anima, posseduta indipendentemente dalle relazioni con gli altri, ed è per ciò stesso che soltanto colui che possiede il senso della giustizia potrà compiere al meglio la propria funzione.

Che cos’è la giustizia? domanda che percorre come un filo rosso l’intera storia dell’umanità. Dalle civiltà più antiche e financo prima che si potesse parlare di civiltà, gli esseri umani hanno avvertito l’esigenza di innalzare quei pilastri etici su cui poter issare l’architrave della convivenza.

I greci, già prima della nascita della filosofia, diedero un’immagine personificata della giustizia: il mito vuole che il volto di Diche, figlia di Zeus e Temi, sia proprio quello della giustizia. Nella Grecia mitica i concetti, i sentimenti, le passioni, tutto possedeva un volto e un’immagine. Non vi era emanazione o appendice umana che non potesse essere identificata chiaramente.

Nel mondo odierno quando parliamo di giustizia non parliamo solo della sua amministrazione quotidiana, quel complesso istituzionale che coinvolge i giudici, i tribunali, le corti, gli avvocati, i pubblici ministeri, le prigioni. Parliamo anche di un cardine ideale, dei valori di base a cui si ispira la distribuzione di diritti e doveri, opportunità e obblighi.

Se si smarrisce questo riferimento ideale, l’impalcatura che sostiene l’amministrazione della giustizia collassa. A quel punto il più “forte”, l’arrogante, il potente e il “ricco” cominciano ad avere buon gioco opprimendo chi non gode di privilegi, dunque il “povero”, l’escluso, l’inerme, le minoranze sociali, religiose e razziali si vedono sopravanzare e discriminare da chi vuole imporre una legge propria, a difesa di interessi di parte.

Accade ciò quando gli uomini si collocano al di sopra delle leggi. Ed è per questo che nessuno può cadere al di là del perimetro disegnato dalla legge. Solo quando il rispetto delle leggi genera morte e distruzione, come ebbe luogo nei regimi totalitari, si ha il dovere di reagire e rigettare l’ordine costituito.

Ora volgiamo lo sguardo indietro, torniamo al IV secolo a.C, dinanzi al tribunale ateniese che condannò Socrate. Il nostro breve viaggio comincia con un processo che raccontò molto agli uomini, sull’integrità morale che dovrebbe appartenere ad ognuno di noi. Egli, sapendo bene di essere il più sapiente degli uomini e di essere sempre vissuto nel modo migliore, pronunciò la propria difesa non come fa un reo che si raccomanda, ma come un maestro e un padrone. Non ritenne opportuno implorare la clemenza dei giudici, ma si convinse che era arrivato il momento giusto per morire.

Fu accusato di empietà perché non ha riconosciuto gli dei tradizionali della polis e corruzione dei giovani, quest’ultima accusa particolarmente infamante. Dopo la condanna, gli amici offrirono a Socrate l’opportunità di fuggire: ma lui rifiutò, adducendo motivi di lealtà alle leggi.

Preferiva, insomma, morire ingiustamente piuttosto che sopravvivere violando la legge. Immolando la propria vita Socrate innalzò le leggi al di sopra degli uomini e prima di ingoiare la cicuta: “…è ormai tempo, o giudici, di andar via, io per morire, voi per continuare a vivere: chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti tranne che al dio”.

Nessuno poteva esercitare violenza nei confronti della legge, poiché la conseguenza sarebbe stata l’arbitrio e il dominio di uomini su altri uomini. La leggenda vuole che Socrate venga considerato il precursore di Cristo. Con il rispetto che si deve alla figura di Cristo una certa analogia balza agli occhi: entrambi sono stati perseguitati dalle autorità giuridiche e politiche, sino alla conseguenza estrema della condanna a morte. Non si sono arresi di fronte alla violenza e non hanno mai sconfessato le proprie idee, resistendo ad ogni intimidazione sino al sacrificio della propria vita.

Nel momento dell’appello al popolo, che deve decidere fra Cristo e Barabba, sembra delinearsi un primordiale procedimento democratico. Ma non illudiamoci: in quell’episodio sono a confronto due poteri che ricorrono alla democrazia soltanto per servirsene.

Da una parte Caifa e il Sinedrio, rappresentanti di una "democrazia” dogmatica che si ritiene in possesso di una verità indiscutibile; dall’altra Pilato, emblema di una civiltà dominatrice e di una democrazia scettica, a cui tutto è indifferente fuorché la conservazione del potere.

Il processo di Gesù Cristo rappresenta uno snodo cruciale per il mondo occidentale poiché ci pone dinanzi agli occhi i diversi modi di pensare la democrazia.

A cavallo fra il ‘500 e il ‘600 Giordano Bruno e Galileo Galilei furono processati più volte dalle autorità religiose, dall’Inquisizione per intenderci. Le loro idee si opponevano agli assiomi ecclesiastici ed allora, con gran solerzia, l’accusa di eresia scattava per le ragioni più dissimili: astronomiche, religiose, trinitarie.

Chiunque affermasse principi contrari alle convinzioni inoppugnabili della Chiesa veniva perseguito e, se non disposto ad abiurare, condannato a morte.

Il neoplatonico Bruno affrontò il rogo con la stessa spavalderia con la quale sostenne le proprie idee, non rinnegò il suo credo filosofico/religioso e morì per testimoniarlo: “Si presenta morto a chiedere che la sua filosofia viva”.

Andò diversamente a Galilei, l’autore del Saggiatore e del Dialogo sopra i due massimi sistemi, fu il fondatore della scienza moderna e il teorizzatore del metodo scientifico. Anche su di lui cadde come un maglio il giudizio della Chiesa, la quale, sussumendo le teorie tolemaiche, non tollerava le tesi copernicane altresì sostenute da Galilei.

La Chiesa della Controriforma e della paura lo condannò, era il 1633. Evidentemente la Terra doveva rimanere ferma al centro dell’universo, pertanto costretto ad abiurare, pena la morte, Galileo Galilei non volle farsi uccidere ma continuare i suoi studi a difesa dell’intelligenza umana e della curiosità che da sempre estendono i nostri orizzonti.

Altro processo degno di menzione è quello, seppur sommario, contro Luigi XVI di Francia. Alla sbarra pagò per tutti i suoi predecessori, per l’irresponsabile opulenza fondata sulle sofferenze del popolo affamato, per l’assolutismo monarchico che distrusse la Francia seppellendola sotto una montagna di debiti e impedendo qualsiasi riforma.

Dopo la Rivoluzione del 1789 l’Europa non fu più la stessa, l’esecuzione capitale del re di Francia pose fine all’assolutismo e aprì la strada all’affermazione dei principi di libertàuguaglianza e fratellanza. Certo dopo arrivò Napoleone Bonaparte e fu di nuovo sangue, ma questa è un’altra storia.

Facciamo un salto di due secoli ed ecco il Novecento con le due guerre mondiali, la Rivoluzione russa e Norimberga. Il processo di Norimberga fu promosso dinanzi a un tribunale costituito dalle quattro potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale e vide alla sbarra alcuni tra i maggiori gerarchi del regime nazista: dal novembre del 1945 all’ottobre del 1946 una mole titanica di documenti e testimonianze gettò piena luce su atti di barbarie perpetrati con scientifica determinazione, in misura mai vista nella storia dell’umanità, per imporre un’ideologia permeata di annientamento e morte.

In quella sede e per la prima volta, il diritto internazionale fu applicato ai crimini di guerra e contro l’umanità, la scoperta dell’Olocausto fu un trauma per il mondo intero, da quel momento si gettarono le fondamenta di una nuova era, ispirata a regole di civiltà volte a garantire pace tra le nazioni e rispetto dei diritti umani.

Il processo non è solo un procedimento attraverso il quale viene esercitata la funzione giurisdizionale, è anche un “luogo” emblematico dove l’immaginario collettivo identifica la vittoria della giustizia. Una lunga striscia di sangue attraversa la storia del nostro paese, una guerra non dichiarata che ha prodotto centinaia di morti. La lotta alle associazioni criminali di vasta portata e ampio respiro raggiunge l’acme quando schiere di delinquenti incalliti strepitano dietro le gabbie di tribunali militarizzati.

L’operato dei magistrati ha portato a condanne esemplari, ad esempio in seno al Maxiprocesso del 1986 furono comminati diciannove ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. Sono trascorsi secoli da quando Socrate si avvelenò con la cicuta e tuttavia c’è ancora molto da fare, molto lavoro da compiere per far sì che il senso della giustizia diventi un abito mentale. Una forma mentis che agisca sul modo di pensare e sul comportamento di ogni individuo, solo così si potrà anelare ad una società equanime e giusta.

Giuseppe Cetorelli