Era un film molto atteso American Pastoral, diretto e interpretato da Ewan McGregor alla sua prima regia, ma purtroppo si rivela non completamente riuscito. Tratto dal famoso romanzo dello scrittore statunitense di origine ebraica Philip Roth, pur avendo affrontato con molto coraggio un’impresa che si sapeva già dall’inizio essere rischiosa (già altri in questi anni ci avevano provato, ma sembrava quasi impossibile portare sullo schermo un grande capolavoro dalla struttura così complessa e stratificata), l’attore di origine scozzese non ha saputo trasportare appieno sullo schermo la forza narrativa del romanzo.
“American Pastoral” è la storia di Seymour Levov (Ewan McGregor), detto “lo Svedese”, nato e cresciuto in una famiglia ebrea di Newark, una città del New Jersey. Fin da ragazzo, nel periodo del dopo guerra, era considerato un vincente: atletico, alto, biondo, benestante, bravo sia a scuola sia negli sport. Da adulto, Seymour eredita dal padre la gestione della Newark Maid, l’azienda di famiglia produttrice di guanti. Non solo, diventa anche il marito della bella Dawn Dwyer, ex Miss New Jersey (Jennifer Connelly). La coppia ha una figlia, Merry (Dakota Fanning), balbuziente. La loro vita scorre serena in una grande casa di campagna, situata nel tranquillo ed esclusivo quartiere di Old Rimrock, per tutta l’infanzia della bambina, fino a quando, durante l’adolescenza, comincia una fase di forte ribellione da parte della ragazza. I rapporti con i genitori cominciano ad incrinarsi e Marry si allontana sempre più da loro. Insegue idee politiche radicali e contestatarie molto lontane da quelle della sua famiglia di stampo borghese. Siamo fra gli anni Sessanta e Settanta nel periodo della guerra in Vietnam e degli odi razziali. Merry si unisce ad una falange di estrema sinistra e prende parte ad un attentato a un ufficio postale, nella cui esplosione perde la vita il proprietario. Merry si dà alla clandestinità e sparisce, causando un grande dolore a Seymour e alla moglie che cade in depressione. Il padre passerà tutta la vita a cercare di rintracciarla per riportarla a casa e ricomporre la famiglia, ma il destino ha deciso diversamente. La storia dello Svedese viene raccontata in apertura del film dallo scrittore Nathan Zuckerman (David Strathaim), alter ego di Roth che appare in diverse opere, il quale, durante il 45° ritrovo degli allievi di una scuola superiore, incontra il vecchio amico Jerry Levov, che gli racconta la storia di suo fratello Seymour e della sua bella vita andata in frantumi.“Moglie perfetta, casa perfetta, figlia perfetta. Qualcuno da lassù gli sorrideva. E pensavo che per lui sarebbe sempre stato così”, racconta Nathan Zuckerman, che è anche la voce narrante di “Pastorale americana”, libro per il quale Philip Roth nel 1998 vinse il Premio Pulitzer. Un romanzo che parla della disintegrazione dell’american dream negli anni Sessanta, ma soprattutto è il resoconto dei profondi cambiamenti avvenuti nella società americana degli ultimi cinquant’anni. L’adattamento, realizzato dallo sceneggiatore John Romano, è centrato sulla ricerca della figlia da parte dello Svedese e sul rapporto padre-figlia, contrassegnato in questo caso dalla perdita, per la quale Seymour se ne sente responsabile e che lo farà sembrare inadeguato.
Il limite della sceneggiatura è proprio questo, cioè di aver puntato solo al racconto di questa parte della storia e di aver spiegato troppo brevemente quella relativa alla “fortuna” di Seymor, del periodo in cui era baciato dagli dèi, e di aver poco sviluppato la maturazione del conflitto tra Merry e i genitori. Era inevitabile fare un lavoro di snellimento del libro, ma il risultato è piatto e non approfondisce il corollario indispensabile a capire l’evolversi degli eventi. Ewan McGregor si riserva nel film il ruolo di protagonista principale, quello di Seymour Levov, ma, a parte in alcuni momenti, la sua recitazione non riesce a dare vigore al dolore e alla disperazione del personaggio, forse troppo preoccupato di curare la regia. Ci riesce molto bene invece Jennifer Connelly, bravissima, che, nella parte della madre trascurata dal marito, afflitta per la perdita della figlia e folle di rabbia inespressa, fa emergere la parte confusa dell’America che vede nei cambiamenti la fine di un’epoca. E l’inutilità di scelte fatte in passato. “American Pastoral” si presenta comunque come un’opera elegante e raffinata, seppur ogni immagine sembra delineata da una cornice. Lo scenografo Daniel B. Clancy, in sinergia con il direttore della fotografia Martin Ruhe, si è ispirato infatti agli iconici ritratti degli anni’50 del pittore americano Edward Hopper e il film è come se componesse un album dell’artista con i paesaggi, le pompe di benzina, le case, gli interni, le luci che variano da un tono più caldo e naturale a uno più freddo e grigio per contrassegnare gli stati d’animo e le fasi del vissuto. Anche la fabbrica di guanti che all’inizio appare pulita e ordinata alla fine ha un aspetto trasandato e decadente. McGregor comunque ha fatto un grande sforzo, tenuto conto che “American Pastoral” è il suo film d’esordio come regista, e almeno di questo gliene va dato il merito.
Clara Martinelli