Seconda serata per Morrissey a Roma, all’Atlantico Live. Doppio controllo degli zaini all’ingresso. Sala piena, pubblico eterogeneo: quarantenni, cinquantenni che con gli Smiths e Morrissey ci sono cresciuti, trentenni abituati alle cassette che fratelli più grandi ascoltavano in casa – come nel mio caso -, giovani in stile pseudo-punk. C’è gente ma anche spazio. Il tempo di guardarci intorno e fare queste brevi considerazioni, che le luci si spengono e alle 21.00 spaccate parte un brano classico che annuncia l’ingresso della star. E lo è. Richard Steven Morrisey, icona della scena musicale britannica, fondatore con Jonh Marr nel 1982 di uno dei gruppi che più ha influenzato il rock successivo, The Smiths, appunto.
E’ elegante come di consueto, anche se al suo stile dandy in giacca, preferisce questa volta un look più “sportivo”, ma sempre di classe, con camicia-blusa rossa che spicca in mezzo all’insieme della band che si presenta quasi in divisa: camicia chiara e bretelle, capelli rigorosamente ingelatinati e ben pettinati. Sono Jesse Tobias e Boz Boorer, chitarre, Solomon Walker , basso, Matt Walker batteria, Gustavo Manzur, tastiere, percussioni.
Un momento di raccoglimento e saluto tra loro, credo di buon auspicio per il live. Un appuntamento al quale molti si sono recati non senza preoccupazione e tristezza all’indomani delle dichiarazioni del cantante sul suo stato di salute e sulla battaglia che da 18 anni sta ingaggiando contro il cancro.
Una tristezza spazzata via proprio dall’energia e dall’intensità con la quale il cantante di Manchester si è presentato a questa seconda data in una città che ama e lo ama particolarmente. Così, sullo sfondo di una eloquente Regina Elisabetta con il dito medio alzato, anzi tutti e due, parte The Queen is dead, dura invettiva contro la monarchia inglese, anno 1986 dall’omonimo album, il terzo degli Smiths. Poi avanti subito con la più riflessiva You have killed me: meno coreografico del solito forse, ma sempre incredibilmente elegante e aggraziato, Morrissey trascina tutti con la sua voce calda e romantica, si concede al pubblico che saluta anche dando la mano ad alcuni sotto il palco.
La scaletta è un mix tra passato e presente, tra ironia, denunce e romanticismo: numerosi i brani dall’ultimo album “World peace is none of your business”, a partire da The bullfighter dies, che, da convinto difensore dei diritti degli animali, denuncia la crudeltà della corrida (leggi anche nostro articolo qui) e lo fa immaginando un pubblico tutto schierato dalla parte del toro; l’avvolgente Kiss me a lot e la più latina quanto nostalgica Earth is the lonelinest planet.
Qualche incursione nei diversi album realizzati in più di venti anni da solista, come con Trouble loves me, da “Maladjusted” e I’m throwing my arms around Paris. Poi ci sono gli omaggi, non solo l’ormai consueta cover di To give di Franck Valli, ma anche un saluto a Rita Pavone, di cui è un dichiarato ammiratore. E in ultimo ma non ultimo ovviamente, alcune delle perle del repertorio degli Smiths, intramontabili: How soon is now? – capolavoro! – o l’inconfondibile Meat is murder, il brano tratto dall’ album del 1985 che a tutto rock denuncia l’industria dell’allevamento intensivo, ma chiama in causa anche chi consuma carne. A supporto della musica e di quello che nel tempo è diventato quasi un manifesto animalista, la proiezione di immagini più che significative, davanti alle quali, lo stesso cantante, vegetariano da sempre, a braccia conserte e spalle al pubblico, si sofferma a lungo mentre il brano va. Io invece capisco finalmente cosa cercavano negli zaini: cartelli vietavano di introdurre nel locale carne o pesce; in effetti no, non avevo portato niente del genere!
Il ritmo del concerto è serrato e in breve tempo si arriva al suggello di un live generoso e coinvolgente, con Asleep. Il pubblico è commosso e grato! Moz, per i fan più stretti, se ne va per tornare dopo pochi minuti, cambiato d’abito e stavolta in camicia, per chiudere con il brano che forse più lo rappresenta: Everyday is like Sunday! Tra gli applausi, saluta il pubblico e invece di fiori, lancia alla platea la sua camicia e con la stessa leggerezza esce di scena, con la stessa classe con la quale esattamente 90 minuti prima ci aveva accolti. 90 minuti che siamo felici di non esserci persi!
Sara Cascelli