Le pressioni deprimenti e livellanti della Legge e/o della Violenza si esercitano sull’intelletto e la morale, facoltà per eccellenza sociali ed egemoni che rifiutano l’originalità biologica del corpo
Giulio Carlo Argan
È di qualche giorno fa l’intervista di Annalisa Cuzzocrea (La Repubblica) a Ivan Scalfarotto, relatore del ddl contro omofobia e transfobia, in cui il vicepresidente del PD si difende dalle accuse bipartisan che gli vengono mosse, rispettivamente, di eccesso di zelo da destra, ed eccesso di dolo dalle associazioni glbt, 5 Stelle e Sel.
Così come fresche sono le polemiche attorno all’altro ddl, quello su femminicidio (stadioTavviolenzaneglistadiProvince), che sembra tanto una pillola da indorare al fine di contentare le continue richieste di donne lamentose delle quali non se ne può più.
Querelles che lascio ad altri tribunali. Quello che qui interessa è una divagazione, dolosa eccome questa, oltre che vecchia come Dio, sulla materia corporale. Più precisamente, sul suo andare e sostare, vi eius naturae. Sul suo migrare, dal regno del privato al regno del pubblico e viceversa; spostamento e bivalenza che se trascurata porta a ben noti e pletorici fraintendimenti.
L’uso del corpo come medium per veicolare un messaggio, l’uso del corpo come verbo sedizioso, il corpo del testo, è cosa disgiunta dal corpo privato, dal corpo intimo, dal corpo che è se stesso e nient’altro e che non dovrebbe riguardare l’occhio indiscreto della favolosa res pubblica. A meno che non venga violato, s’intende.
In sostanza, cerchiamo, sforziamoci, di far emergere un punto che è del tutto culturale e che non solo avvicina ciò che dovrebbe restare lontano, ma allontana ciò che al contrario dovremmo percepire come nostro.
Mi riferisco a movimenti, associazioni e gruppi (Femen e Pussy Riot tra i più noti) che deliberatamente assumono il corpo quale manifesto per intraprendere dei percorsi di rottura e sensibilizzazione riguardo a tematiche, quelle si, comuni. Lì, il corpo, preso nella morsa del fraintendimento di cui sopra, viene immediatamente censurato dal sentire comune solo ed esclusivamente perché ritenuto intimo e privato, quindi non spiattellabile. Si condannano e si troncano ragioni di natura pubblica, solo perché una tetta in mostra urta il comune sentire che si appella alla falsa morale della nudità privata.
Di contro, quello stesso corpo che in voluttà dovrebbe essere lasciato libero di esaltare i favori delle delizie private, viene messo in croce da un esercito di antropofagi che lo ritengono cosa loro. O che, in casi terzi, non è di nessuno, perciò in balìa di una violenza che il tanto operoso comune sentire sembra non scomodarlo affatto.
È lo stesso fraintendimento che fa storcere il naso quando davanti a una performance il corpo nudo o maltrattato infastidisce in virtù della sua presunta intimità o immacolatezza, trascurando magari l’intenzione soggiacente: chiamiamolo così, il contenuto.
La questione del corpo assume così rilevanza non più soltanto formale - corpo e in seno all’umano e in quanto corpo astratto, immateriale - bensì eccezionalmente sostanziale.
Il corpo contemporaneo ha oltrepassato i suoi confini organici, è stato ridisegnato dall’ingegneria genetica e simulato dalla manipolazione digitale; è diventato un luogo di significazione in divenire. Dagli anni Settanta, attraverso la body art, ha riedificato il suo senso e si è tramutato da oggetto in soggetto.
A partire dalle esperienze di quegli anni fino alle performance dell’ultimo squarcio di secolo e alle recenti ibridazioni fra corpo e tecnologia che hanno ispirato artisti come Marcel-Lì Antunez Roca, con i suoi bodybots, dresskeleton e systematugy, complessi apparati tecnologici in grado di fondere, da un lato, i movimenti del corpo con le funzioni robotiche, dall’altro, la staticità del testo con le possibilità interattive dei nuovi linguaggi mediali, o ancora Orlan, Stelarc, Jana Sterbak, Janine Antoni, il passaggio è avvenuto in modo inarrestabile, rivolgendosi a un orizzonte visuale multidisciplinare attraverso inedite commistioni artistiche: i technological-dress di Hussein Chalayan, i cremaster-video di Matthew Barney, i cyber-clip di Chris Cunningham, le reinvenzioni iconiche di pop-star come Bjork e Madonna.
Appare chiaro quanto la questione coinvolga non soltanto gli ambiti più strettamente riconducibili alle trasformazioni estetiche o fattuali, quanto piuttosto tutta una serie di problematiche legate a teorie filosofiche, antropologiche, sociali e politiche, che investono la questione del corpo da più parti.
Appare chiaro quanto la questione coinvolga non soltanto gli ambiti più strettamente riconducibili alle trasformazioni estetiche o fattuali, quanto piuttosto tutta una serie di problematiche legate a teorie filosofiche, antropologiche, sociali e politiche, che investono la questione del corpo da più parti.
Le operazioni estetiche o sociali di denuncia con il corpo e per il corpo hanno a che fare con un sistema di riferimento che è metaforicamente unito e inseparabile. E’ il corpo sociale, che non è affatto intimo e privato, non può scandalizzare perché nudo o bistrattato. Qui gli appelli ai comandamenti sacrissimi o le ingiurie del perbenismo borghese, che non porta la minigonna e che lava in casa i panni lerci, non fanno breccia. C’è spazio solo per la comunione del sentire, del provare a immaginare, del trasferirsi svestendosi.
Quello mio invece, quello diverso dal tuo e dal suo, e cosa fanno assieme, o separati, cosa mangiano, come si lavano, dove dormono, tutto questo non è affare pubblico. Non lo è nella misura in cui è la materialità a interessare e non il diritto. Di essere mancino, troppo bianco, troppo nero, troppo checca, troppo macho, troppo amato. Di non essere un suffisso di morte.
Laura Migliano