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“Io, Daniel Blake” di Ken Loach – trailer e recensione

Vincitore della Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes e uscito da qualche giorno nelle sale italiane, “Io, Daniel Blake” di Ken Loach affronta temi come la costante campagna portata avanti dalla stampa di destra contro coloro che si avvalgono dei sussidi statali, indicandoli come parassiti della società, le misure di austerity da parte del governo britannico nei loro confronti e i tagli al sistema del welfare.

Il trailer:

Il film parla di un carpentiere di New Castle che all’età di 59 anni, per la prima volta nella sua vita, si ritrova disoccupato ed è costretto a chiedere un aiuto allo Stato. Il suo medico curante gli ha proibito di tornare a lavorare a causa di un grave problema cardiaco, ma per motivi burocratici non può fare richiesta di un sussidio per malattia, se prima non trova un’occupazione. Per produrre la documentazione necessaria deve usare il computer, con mille difficoltà perchè non ne è pratico. È un uomo che appartiene ad un’altra epoca, non ha avuto mai bisogno di consegnare un curriculum per cercare un lavoro e se deve compilarne uno prende carta e penna per scriverlo a mano. Così si reca giornalmente al centro per l’impiego dove qualche funzionaro ben disposto lo aiuta nel suo disperato tentativo di adeguarsi alle nuove tecnologie, e durante una di queste visite, Daniel conosce Katie (Hayley Squires), giovane madre single di due bambini piccoli in cerca di lavoro. Si è trasferita da poco da Londra a New Castle, dove i servizi sociali le hanno assegnato un appartamento, purtroppo in pessime condizioni. Daniel (Dave Johns), vedovo senza figli, si affeziona alla ragazza e ai suoi bambini, cerca di aiutarli come può con dei lavoretti in casa, instaurando con loro un’amicizia speciale, che li porterà a farsi coraggio per cercare di superare le tante difficoltà. La solidarietà tra persone di modeste condizioni e la dignità con la quale ogni giorno portano avanti la loro lotta per la sopravvivenza in un mondo diventato sempre più difficile è il perno su cui gira la storia narrata in “Io, Daniel Blake”.

Si tratta del venticinquesimo film girato dall’ormai ottantenne Ken Loach e scritto da Paul Laverty, suo amico e sceneggiatore a partire dal 1996 da “La canzone di Carla” in poi. Tutto quello che vi si vede proviene dalle storie vere, ascoltate dalla voce degli operatori di organizzazioni che si occupano di senzatetto. “Ci ha colpito molto la leggerezza e la casualità con cui un ragazzo ci ha raccontato della nausea e del mal di testa da fame che lo assalivano mentre cercarva di lavorare”, ricorda Laverty. Nel film sono presenti situazioni simili capaci di suscitare forte empatia in chi guarda come, ad esempio, avviene nella scena in cui lei e Daniel si recano nella food bank per ritirare del cibo. Katie, affamata da giorni, non riesce a trattenersi e apre una scatoletta di fagioli mangiandoli con le mani davanti a tutti, scoppiando poi in un pianto disperato per la vergogna. I personaggi che Loach porta sullo schermo diventanto così il simbolo di un disagio sociale, supportati da una forza ideologica e morale sempre presenti nei film del regista, toccando i tasti emotivi giusti neccessari a coinvolgere lo spettatore. Certo, a volte forse eccede nella sua escalation di eventi negativi che Daniel e Katie sono costretti a subire ed anche l’epilogo drammatico non dà spazio alla speranza che qualcosa si possa muovere a favore di chi è meno fortunato. “C’erano casi anche peggiori di quelli raccontati nel film”, ammette Loach. Un destino segnato quello di Daniel che non può opporsi al suo andamento, anche quando, piegato dagli eventi, cerca rifugio nel suo appartamento, rimasto ormai senza mobili e completamente al freddo. “Molti si trovano a dover scegliere tra cibo e riscaldamento”, racconta Laverty. “In Scozia, abbiamo conosciuto un uomo fantastico, intelligente e di sani principi morali, molto desideroso di lavorare, che si rifiutava di cedere al sistema del workfare. Non accendeva mai il riscaldamento per risparmiare, si nutriva con gli alimenti in scatola più economici che trovava al Lidl e, nel febbraio 2015, ha rischiato il congelamento”. A tirare su il morale a Daniel, oltre a Kate e ai suoi bamini, ci sono i due ragazzi vicini di casa, che vivono vendendo sneakers provenienti dalla Cina, e sono pronti a dargli una mano quando occorre. A Ken Loach interessa mostrare che lo sguardo umano è ancora presente tra uomini e donne, a dispetto delle tecnologie, delle regole dello Stato, che rende tutto impersonale e complicato, e dei tagli alla spesa sociale assurdi. E per rappresentare nel modo migliore la verità di ciò che accade alla Banca del Cibo e negli uffici di collocamento, il regista, grande cultore del neorealismo, ha utilizzato i volontari e gli impiegati che vi lavorano, affiancandoli agli attori. Un film nato dalla rabbia e dall’indignazione, come ha precisato Loach, ma che vuole soprattutto essere cinema e il piacere di continuare a farlo, nonostante l’età. Il regista, poco prima di girarlo, aveva annunciato la sua idea di ritirarsi, di riposarsi finalmente per dedicarsi ad altro. Ma ora non ne sembra più tanto convinto, perchè ci sono ancora tante storie da raccontare e i premi, come la Palma d’Oro vinta a Cannes, servono a fare distribuire film di denuncia come “Io, Daniel Blake”, che diventano così veicolo per la presa di coscienza da parte della gente.

Clara Martinelli