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Brevi riflessioni su “Reality”, di Matteo Garrone

Una fiaba triste che racconta della nostra esistenza

Reality è stato presentato in concorso a Cannes, dove Garrone ha vinto nella categoria “Gran Prix”, nel maggio 2012. Il cast è composto da attori non professionisti, un solo volto noto (Claudia Gerini che è la conduttrice del GF) e un protagonista, Aniello Arena (straordinario), che è un ergastolano divenuto attore, e che ovviamente non è andato sulla Croisette perché detenuto nel carcere di Volterra.

In questo film si tratta di un pescivendolo, Luciano Ciotola, che vive a Napoli in un palazzo un po’ diroccato con la moglie e i figli avendo come coinquilini numerosi parenti (mai parchi di consigli e suggerimenti dalle ambizioni risolutive). Gestisce una pescheria, ha una vocazione per l’esibizione spettacolare mentre con la moglie ha attivato un traffico illegale di prodotti casalinghi. Un giorno decide di partecipare al grande fratello. Inizierà per gioco, fintanto che gli ori dell’Eden mediatico lo precipitano in una spirale di attese, e la prospettiva di entrarne a fare parte si fa progressivamente “ossessione”. Che però tecnicamente ossessione non è, per chi mastica un po’ della materia.

E’ vero che Garrone ci illustra il vuoto morale, di cultura e di senso della realtà di un popolo intero, tuttavia preme sottolineare la ricerca antropologica e psicopatologica riguardante le sofferenze del protagonista, che sono sceneggiate ed interpretate in maniera a dir poco mirabolante.

Ad un certo punto si intuisce che Luciano viene curato (non si capisce in che modo, ma si fa cenno a “farmaci”), più o meno inutilmente (i farmaci sono inefficaci, il medico non ci capisce niente). La “sfiducia” nella scienza (nella psichiatria, che non viene nemmeno nominata, oltre che nei confronti dello psicologo) viene dipinta come totale.

E purtroppo questo è proprio quello che spesso accade nella realtà: la figura del medico in analoghe circostanze è spesso marginalizzata, distorta, quasi ridicolizzata e nel caso del film veicola diagnosi poco plausibili (“Luciano soffre di shock da grande fratello”). E comunque si sa: dallo psichiatra “ci vanno solo i pazzi”, sembra sottintendere Garrone.

Inoltre vengono fotografate alla perfezione alcune distorsioni che portano sovente alla stigmatizzazione, non riconoscimento, intervento tardivo e minimizzazione (“tanto gli passa”) di problemi che se curati tempestivamente potrebbero essere risolti o quanto meno gestiti meglio.

Comprendo il motivo di mantenere sull’argomento la superficie apparente di un geometrico esercizio di stile (il film dice senza dire in maniera per certi versi geniale a mio modesto avviso). E del resto un titolo del tipo “progressione inesorabile di un episodio maniacale con sintomi psicotici incongrui al tono dell’umore, senza trattamento” non avrebbe attirato molto pubblico. Ma forse è proprio quello di cui il film parla: della favolistica surrealtà che purtroppo a volte diventa sofferenza reale.