Arte

Pro testo

Le opere di Roland Barthes sono opere del disarmo, del dormiveglia, nella figurazione infinita del linguaggio

“Ho una malattia, io vedo il linguaggio. Ciò che dovrei soltanto ascoltare, una strana pulsione, perversa in quanto il desiderio si sbaglia di oggetto, me lo rivela come una visione.”

Roland Barthes

Nella lista delle immagini che fanno tacere il linguaggio Sei Shonagon avrebbe certamente inserito i disegni e i dipinti di un linguista d’eccezione, Roland Barthes. Quello stesso Barthes che nel 1976 puntualizzò l’importanza cardine dei semiogrammi di André Masson quale snodo cruciale tra una poetica plastica postfigurativa ma non già astratta e una teoria del testo ancora sconosciuta in quegli anni: “in questo caso la pittura apre la via alla letteratura giacché sembra aver postulato prima di questa un oggetto inaudito, il Testo, che sorpassa in maniera decisiva la separazione delle arti”.

Si conoscono circa 700 disegni di Barthes, in nero e colorati. Quasi tutti siglati, numerati, datati con l’anno, il mese, il giorno, raramente anche l’ora. L’oggetto è la scrittura, l’integrità materiale del testo.

Sono testi scrivibili e non leggibili, come egli stesso afferma, senza essere per questo ermetici o arcani. La scrittura disegnata di Barthes si coglie con uno sguardo, basta intuire quanto siano significanti i segni che non passano per la tipologia classificatoria dell’alfabeto o per le simmetrie coatte della grammatica e della sintassi.

Come è evidente l’impronta segnica giapponese, così è altrettanto manifesto l’amore per Masson, Pollock, Twombly. È lo stesso amore per la fuga dalla Legge.

Sono scie di movimenti, segmenti impazziti che si agitano nel vuoto, in cerca di uno spazio che non trovano, frammenti, tanto cari a Barthes, di pulsione e desiderio. In fin dei conti, immaginazione. Pattern disorganizzati. Un tale, svincolato, automatismo del gesto è libertà di linguaggio di farsi aggregazione in nuovi significati, lasciando che altre forze subentrino nell’opera a determinare smottamenti di senso, fino a trasformarsi in mero significante, aleatorio e instabile.

Le opere di Barthes sono opere del disarmo, del dormiveglia, nella figurazione infinita del linguaggio.

Invasività del tratto e invadenza del gesto compiono un processo di opulenza segnica, anche laddove il segno è assente, capace di congiungere quantità materica del processo creativo e qualità oggettiva del simulacro.

Qualcuno potrebbe obiettare che i disegni dei letterati sono letteratura, interessano come parte del loro lavoro letterario. Barthes smentisce un’impostazione così settaria: la sua poligrafia è sì indistinta dalla sua ricerca semantica, ma è proprio quest’ultima a non essere solo ed esclusivamente letteratura. Solo un dettaglio accomuna i due ambiti e cioé sia l’una che l’altra sono oggettivamente scrittura. Non tutta la scrittura è letteratura, parrebbe banale a dirsi, eppure è qui che Barthes insiste nel suo rigoroso sgomitolare il concetto di testo. D’altronde ciò che interessa è la trama, le relazioni: aggregarsi, sciogliersi, ricomporsi.

In questa totale infatuazione per il segno grafico (a dispetto di quello alfabetico) vi è anche una sottile critica di classe, ai letterati occidentali, colpevoli di una presunzione di matrice interpretativa, che voleva smarrire la continuità culturale tra il testo e il disegno, perdendo la carica preziosa di coesione e immedesimazione col mondo.

Io vedo il linguaggio ossia vedo testo, ovunque. Testo però da intendersi come oggetto - quindi materiale - non oggettivo - quindi aperto nella sua decodifica. Ed è di nuovo in mezzo a queste acque che il Barthes filosofo sguazza liberamente come fosse un delfino. Il concetto di testo (dal latino textum, "tessuto", quindi metaforicamente "trama del discorso"), fino ad allora identificato in una serie di enunciati scritti autonomi e autosufficienti secondo il paradigma della pragmatica linguistica, viene ampliato da Barthes fino a identificare qualsiasi oggetto semiotico dotato di una particolare struttura e mirato a ottenere una particolare serie di scopi comunicativi. In questa nuova accezione semiotica, il testo può essere costituito da diverse sostanze dell'espressione o forme mediali. Questo significa che ogni testo contiene al proprio interno una struttura basata su di uno sviluppo narrativo anche solo potenziale, il che significa ancora che può non significare, o meglio significare se stesso in quanto significante (Bartleby docet).

In questo humus destrutturante, l’intuizione di Barthes è come una lunga rincorsa prima di un salto: il salto va a finire nelle scienze politiche e nelle scienze economiche soprattutto.

Le avanguardie infatti si erano tutte rese conto che la disaffezione nei confronti dell’oggetto, del referente reale, non stava investendo solo e soltanto il mondo della cultura umanistica, ma che questo disamore poteva anzi essere attribuito ai cambiamenti in corso in altri ambiti, specie in materia di capitalismo. Da lì a poco, l’age d’or dell’economia capitalista avrebbe stravolto del tutto ogni tipo di immaginario. Già in parte dopo la Prima, ma soprattutto subito dopo la Seconda Guerra mondiale la qualunque si fece merce. Non di meno nell’arte. Per tutta risposta, chi nello svuotare di contenuto figurativo, chi facendo appello all'astrazione, chi al sogno, chi attraverso la derisione e la parodia (pop art, dada, concettualisti, arte povera), chi facendo del tutto a meno dell’opera concreta (happenings, situazionisti, body art), chi creando opere ineluttabilmente in situ (site specific), un po' tutti presero le distanze dalle dinamiche capitalistiche attraverso lo svuotamento di significato manifesto e innalzando di contro un muro ancora oggi difficile da scavalcare se ci si consola entro vestigia reazionarie e passatiste. Il muro è il valore del significante.

Ciò che s’intendeva mettere in discussione, al di là degli aspetti tecnici, era un certo elitarismo da salotto che andasse incontro a una perdita di valore monetario in ragione di opere intrasportabili, effimere, seriali e addirittura inesistenti. Non fu così in definitiva, ma il sasso era stato lanciato, non senza successo d’intenti. Non erano fuochi fatui i contraccolpi creati al sistema dell’arte.

Negli stessi anni, volendo tracciare un filo rosso sincretico che dia ragione all’allargamento del concetto di testo, un certo Marshall McLuhan spazzava via ogni ghirigoro speculativo sentenziando “il medium è il messaggio”.

Ai già citati, si aggiungono tutta una schiera di intellettuali a sostegno del significante, quasi sempre legati con anelli teorici alle sperimentazioni artistiche iniziate negli anni ’50 e fortificatesi negli anni ’60-’70 (derivanti a loro volta da intuizioni nel campo delle arti plastiche) che pretendono di svincolare l’arte dalla costrizione del contenuto, liberandola nel quadro della pregnanza del significante.

In quest’ottica, è pertinente far emergere la disputa sul valore delle immagini, laddove per immagini s’intende l’insieme delle rappresentazioni convoglianti nel concetto, più convincente, di immaginario.

Ma dove sta il legame tra il significante e l’immaginario? Proprio in McLuhan, o più precisamente nel (loro essere) medium. Nel suo “La vita delle immagini”, Jean-Jacques Wunenburger prese in esame proprio le questioni relative all’immaginario, muovendosi dal presupposto fenomenologico che l’immaginario è, in tutto e per tutto, una via per intellegere, un modo di svelarsi del mondo. In sostegno a quanto appena detto, Wunenburger passò in rassegna – in maniera abbastanza verosimile al modo di scorticare i miti d’oggi che ha Barthes – una serie di istanze storico-culturali che fanno da concime per la creazione di una coscienza umana collettiva e che in nessun modo possono essere relegate al mero ruolo di trastullamento speculativo così come invece supponevano i razionalisti e fisicalisti della filosofia. Egli rivendica un’assoluta “uguaglianza di diritto tra una comprensione di natura simbolica e mitica dell’esperienza umana e una di natura razional-concettuale”, laddove la prima è rubricabile come immaginario simbolico, capace di generare passaggi di stato storico-evolutivi attraverso immagini mitico-archetipi (la metafora, il mito, la città, il deserto, l’isola, la Terra promessa, l’autoritratto), alla cui fine sta il discorso sugl’immaginari virtuali e sulla figurazione del corpo. E’ naturale a questo punto fare un ulteriore salto tematico, in realtà non troppo lontano nella forma, verso l’universo del cyberpunk, bacino di confluenza e della riflessione sul corpo e di quella sull’immaginario virtuale, entrambe però viste dall’altro lato della focale e cioè, non più come immaginario a cui attingere per l’attivazione di percorsi successivi, bensì come visione premonitrice di una realtà a venire.  Ancora una volta, tanto per sottolineare con forza il ruolo (per non dire valore, potere, rilievo) sociale dell’arte (quando non è solo maniera), basta considerare quanto vicini, per processo, storia, evoluzione, siano il mondo della finanza e quello delle cosiddette nuove tecnologie, imprescindibile per il settore artistico contemporaneo, o post, che dir si voglia.

Virtuali entrambi e soprattutto senza referente. Considerazione da non sottovalutare, se si pensa a implicazioni che riguardano inevitabilmente la manipolazione sociale, la simulazione e dissimulazione della realtà, la comune concezione del falso, prospettive che Philip K. Dick, ad esempio, aveva bene intravisto nelle sue rotte immaginarie.

Parola chiave, in ogni caso, è la visione, di tipo ontologico e antropologico, equidistante dal sogno e dalla realtà, l’una soggettiva, l’altra visceralmente oggettiva.

La visione è il significante svelato, che significando se stesso non significa altro. Altrimenti detto, la mente collettiva.

Laura Migliano