Storia

L’antifascismo di Giovanni Amendola

A proposito di un volume sul «padre fondatore della democrazia liberale antifascista»

Sgombriamo subito il campo da ogni ambiguità. La biografia stilata da Alfredo Capone di Giovanni Amendola, leader della secessione aventiniana, costituisce un eccellente, meditatissimo lavoro di scavo (Giovanni Amendola. Il padre fondatore della democrazia liberale antifascista, Roma, Salerno Editrice, 2013). Una biografia a tutto tondo, aggiungiamo, dagli iniziali e giovanili interessi teosofici al progetto di democrazia liberale antifascista, di cui il fattore religioso doveva essere elemento irrinunciabile.

In questa sede, peraltro, vogliamo esprimere solo un dubbio sulla plausibilità di una tesi espressa da Capone circa l'antifascismo amendoliano. Capone sostiene che l'atteggiamento assunto da Amendola nei confronti del fascismo non possa essere assimilato sic et simpliciter a quello fatto proprio dagli altri leader liberali, da Giolitti a Salandra a Nitti.

«Amendola – scrive Capone – si era convinto che la conditio sine qua non della partecipazione dei fascisti al governo erano il disarmo e la fine dello squadrismo e che pertanto i termini “giolittiani” della questione dovevano essere rovesciati: non era la partecipazione al governo che avrebbe determinato la costituzionalizzazione del fascismo, ma, al contrario, era la costituzionalizzazione effettiva del fascismo – vale a dire l'abbandono della violenza politica e dello squadrismo – la condizione preliminare alla partecipazione dei fascisti a un governo di unità nazionale a guida liberale, capace di restituire autorità e forza allo Stato» (p. 241).

Ora questa affermazione non ci sembra suffragata da un'analisi dei testi amendoliani richiamati da Capone stesso, vale a dire il discorso che Amendola tenne il 23 luglio 1921 alla Camera dei deputati in occasione della discussione sul governo Bonomi, quello pronunciato a Sala Consilina il 1° ottobre 1922 e l'articolo scritto per «il Mondo» il 21 dello stesso mese.

Nei passi riportati da Capone e relativi al primo discorso, in cui Amendola sostiene la necessità del «ristabilimento dell'ordine pubblico», non si fa riferimento all'opportunità che tale ristabilimento preceda una eventuale partecipazione dei fascisti al governo. Se un ministero di cui facesse parte la destra, osserva Amendola, non potrebbe «significare rinunzia al dovere preciso di ristabilire l'ordine», cionondimeno il politico liberale riconosceva il «diritto di ciascun partito di partecipare (e di avere in pari tempo garanzie) alla restaurazione dell'ordine» medesimo (p. 236). Amendola non sembra qui porre il «disarmo» fascista come condizione ad una partecipazione dei fascisti al governo.

Il discorso di Sala Consilina, poi, viene presentato da Capone come una proposta rivolta ai fascisti di aderire «a un nuovo governo a guida democratica che fosse in grado di imporre le sue condizioni e cioè il rispetto della legge e della Costituzione» (p. 254). E difatti nel brano di questo discorso citato da Capone non c'è alcun accenno alla necessità che la costituzionalizzazione del fascismo preceda il coinvolgimento governativo dei fascisti.

È vero, infine, che nell'articolo sopra ricordato del 21 ottobre Amendola richiamava l'opportunità che un «processo di chiarificazione» circa la posizione del fascismo nei confronti delle istituzioni liberali precedesse l'indizione di nuove elezioni. Ma quest'ultima annotazione non mi sembra che autorizzi ad ipotizzare un antifascismo amendoliano significativamente diverso da quello degli altri protagonisti liberali prima evocati.

Luca Tedesco