CULTURA Storia

Carrieristi o servitori dello Stato? Il caso di Giovanni da Apricena

La sua fu «fedeltà al proprio signore assoluta ed esclusiva»

Viva Arlecchini
E burattini
Grossi e piccini:
Viva le maschere
D'ogni paese;
Le Giunte, i Club, i Principi e le Chiese.

Da tutti questi
Con mezzi onesti,
Barcamenandomi
Tra il vecchio e il nuovo,
Buscai da vivere,
Da farmi il covo.

Così scriveva Giuseppe Giusti nel 1840 ne Il Brindisi di Girella, dedicato «al signor di Talleyrand buon'anima sua». Non più tenero nei confronti di Charles Maurice de Talleyrand-Périgord fu Ernest Renan. Colui che servì la monarchia di Luigi XVI, poi la Rivoluzione francese, Napoleone ed infine nuovamente la corona con Luigi XVIII, fu definito dallo scrittore francese capace di ingannare «la terra e il cielo».

La riflessione storiografica, peraltro, avrebbe riconosciuto le straordinarie doti diplomatiche del grande architetto, assieme a Metternich, dell'equilibrio europeo disegnato al Congresso di Vienna.

Fatte, ovviamente, le debite proporzioni, la medesima capacità può forse riconoscersi a Giovanni da Apricena, da un paio di decenni oggetto di riscoperta in campo sia storico che letterario (A. Morsoletto, Giovanni da Apricena. Un Capitano imperiale "de Apulia" nella Vicenza del Duecento, Vicenza, La Serenissima, 1995 e Carlo Florio, Johannes de Precina, Apricena (Fg), Arti Grafiche Malatesta, 2007).

Capitano d'arme sotto lo stupor mundi Federico II, imperatore del Sacro Romano Impero, scomunicato prima da Gregorio IX e poi da Innocenzo IV, il ghibellino fanatico Ezzelino III da Romano, come anche sotto il vescovo vicentino Bartolomeo da Breganze, anche Giovanni d'Apricena fu sospettato di tradimento, di aver coltivato, infatti, simpatie guelfe e proprio per questo, secondo alcuni, sarebbe stato spedito dall'imperatore in Veneto «in espiazione del favore prestato in qualsiasi occasione al Papa con detrimento degli interessi» dell'impero (Riccardi Sancti Germani, Cronica, citato in Morsoletto, p. 34).

Niente di più sbagliato, secondo Morsoletto, che fa notare come Giovanni d'Apricena, sebbene avesse potuto farlo in virtù dei servigi prestati, non chiese mai concessioni feudali rilevanti. La sua, insomma, fu «fedeltà al proprio signore […] assoluta ed esclusiva» (Morsoletto, p. 72; «lui era preparato ed era pronto. Sapeva il Re su chi poter contare», in Florio, p. 52); fedeltà che non si sarebbe peraltro mai tradotta in eccessi partigiani o settari; dato certamente non banale in un «periodo di guerra senza quartiere, con risvolti di fanatismo politico e ideologico» (Morsoletto, p. 70).

Un servitore dello 'Stato' a tutto tondo, insomma, qualunque fosse il colore politico (od ecclesiastico) del Signore del momento.

Luca Tedesco